2.3 Battitura dei tondelli nel Medioevo

Battitura dei tondelli nel Medioevo

Le monete medioevali sono caratterizzate dai tondelli molto sottili e da rilievi piuttosto bassi. Di conseguenza, si ritiene che le stesse non esigessero una particolare forza nel colpo di martello per imprimere l’immagine o la leggenda sul tondello e che quindi potessero essere battute da un uomo solo (stampatore o battitore), che probabilmente teneva il conio superiore con la mano sinistra e il martello con a mano destra.

Figura 36 – Particolare di una pala d’altare presso la
Annenkirche di Annaberg-Buchholz, Hesse (1521)

Tuttavia, è altresì probabile che lo stampatore si facesse aiutare da un assistente o apprendista che aveva il compito di posizionare il tondello sopra il conio inferiore e, per le monete di calibro più rilevante, di tenere fermo il conio superiore con delle lunghe tenaglie.

La sottigliezza dei tondelli consentiva altresì l’impiego di un martello più piccolo rispetto a quello utilizzato nell’epoca antica. Inoltre, sebbene non ci siano documenti che lo testimonino, si ritiene che i tondelli venissero battuti a freddo, vale a dire non venivano riscaldati prima di essere stampati.

I conî usati per battere le monete erano sempre due: uno inferiore (pila) fissato ad un basamento di legno e uno superiore mobile (torsello), che veniva appoggiato sul conio inferiore e che disponeva di un manico sufficientemente lungo da permetterne l’impugnatura manuale. Tra i due veniva posto il tondello di metallo e mediante uno o più colpi l’impronta in cavo dei conî veniva impressa sulle due facce del tondello.

Come accennato, il conio inferiore o pila veniva conficcato solitamente su un ceppo di legno e, al riguardo, è probabile che, per agevolare il fissaggio del conio, venisse praticato un foro sul ceppo utilizzando un pezzo di ferro arroventato. Questo procedimento era necessario perché la pila non poteva essere martellata sulla faccia superiore incisa, altrimenti si sarebbe rovinato il disegno riportato sulla sua superficie.

In altri casi, la base di legno – eventualmente rinforzata da cerchiature metalliche – poteva contenere una semisfera di pietra di supporto ed una camicia di piombo, destinate ad attutire i colpi e scaricare l’energia sulla base stessa. Sulla semisfera veniva poggiato il conio inferiore fissato con una colata di pece greca.

Il conio superiore o torsello consisteva di fatto in una barra di ferro, del diametro di circa due centimetri e mezzo, di una lunghezza sufficiente da permettere al battitore di tenerla con una mano. Gli esemplari di questo tipo che sono pervenuti sino a noi presentano solitamente l’estremità superiore slabbrata e incurvata a causa dei continui colpi del martello.

Figura 37 – Sigillo di Orvieto (Fonte: Museo Civico Archeologico di Bologna)

Per quanto riguarda la battitura del tondello posto tra i due conî, il sigillo dei monetieri di Orvieto del XIV° secolo (cfr. Figura 37), offre una raffigurazione chiara della tecnica di battitura in età medievale. Sotto due archi sono raffigurate due persone, una di fronte all’altra, sedute a un bancone: quella di sinistra batte con il martello un tondello sopra un’incudine, quella di destra colpisce con una mazza il conio (sotto il quale si intravede il conio inferiore) sorretto con la mano sinistra; intorno compare la leggenda S. LABORANTI: E: MONETARI: E: D’VRBIS: VETERI, che lascia supporre una distinzione tra i laborantes, forse gli operai che preparavano i tondelli, e i monetari, che coniavano le monete.

I martelli usati dagli operai erano diversi: quello piccolo serviva per martellare il tondello, mentre quello a forma di mazza era usato per battere il conio, che era sostenuto dal monetiere stesso poiché il rilievo basso della moneta permetteva di reggere il conio e dare il colpo di martello. Questo sigillo costituisce un documento di eccezionale interesse e, se confrontato con l’aes di Paestum (cfr. Figura 23), mette in evidenza una sostanziale continuità nella tecnica di battitura nell’arco di quindici secoli, sebbene con alcune differenze dovute al diverso spessore delle monete che richiedeva una forza di battitura differente. Nell’antichità la forza necessaria era maggiore, si noti che nell’aes di Paestum il battitore è in piedi ed il martello ha un manico lungo, mentre nel Medioevo la forza necessaria era inferiore, si noti che nel sigillo di Orvieto il battitore è seduto ed il martello ha un manico corto.

Nel corso del XV° secolo cominciarono ad essere coniate monete di grosso spessore – come gli scudi, i talleri, i tripli testoni milanesi – e un solo stampatore non sarebbe stato in grado di esercitare una forza tale da trasferire con un sol colpo le impronte dei due conî. Pertanto, si ricorse a degli espedienti ed, in particolare, il conio superiore veniva impugnato come se fosse uno scalpello e veniva battuto per cinque volte: quattro colpi ai bordi della moneta e l’ultimo colpo al centro. In questo modo, la superficie totale da battere veniva suddivisa in sotto-superfici diminuendo lo sforzo necessario. Infatti, dando un’occhiata ad una di queste monete, si può notare che una delle facce della moneta, quella battuta dal conio superiore, “non è perfettamente in piano ma degrada leggermente dal centro verso i bordi in quattro o più settori con andamento, in sezione, vagamente piramidale[1].

I conî, ed in particolare il conio superiore, subivano forti sollecitazioni, tali da consumare pian piano le incisioni riportate sulle loro superfici e si rendeva quindi necessaria la loro progressiva sostituzione. Talvolta, se il fusto era ancora in buone condizioni, il conio poteva essere ritoccato e ravvivato per continuare ad essere utilizzato. Quando i conî erano definitivamente usurati oppure quando venivano cambiata la tipologia di moneta da coniare, gli stessi venivano generalmente fusi e riutilizzati, dato che, almeno fino alla rivoluzione industriale, il ferro era un materiale pregiato e molto ricercato.

La durata dei conî poteva tuttavia dipendere anche dalle circostanze più diverse quali la resistenza dei singoli fusti e matrici, la destrezza del personale o, per le zecche periferiche, la possibilità di avvalersi o meno della presenza degli incisori[2]. Il conio superiore, soggetto alla pressione diretta dei colpi, si rompeva prima del conio inferiore e la sostituzione differenziata è alla base del metodo numismatico che permette di individuare i legami o le sequenze dei conî.

Figura 38 – Lastra d’oro di paragone. Fonte:
royalmintmuseum.org.uk
Figura 39 – Fonte: Agricola (1556)

Una volta battute le monete venivano controllate al fine di verificarne la qualità di stampa ed eventuali monete che presentavano errori di coniazione venivano generalmente scartate e rifuse. Nel Medioevo cominciarono a diffondersi anche delle specifiche procedure di controllo per verificare la conformità delle monete; tali procedure erano tuttavia maggiormente focalizzate sulla corretta composizione della lega metallica delle monete coniate, piuttosto che sulla qualità delle impronte. Tale verifica consisteva nel paragonare la moneta di nuovo conio con un pezzetto di metallo ritagliato da una lastra la cui composizione era certa (cfr. Figura 38) oppure con delle pietre di paragone. Ad esempio, nella Figura 39 viene riportata un’illustrazione tratta dal libro De Re Metallica di Agricola (1556) che raffigura una serie di puntine d’oro di diversi carati (da 1 a 24) che venivano appunto utilizzate per testare la caratura dell’oro. In particolare, la moneta d’oro veniva fregata sopra una pietra di paragone e a fianco veniva fregata la puntina d’oro e poi le due strisce lunghe qualche centimetro venivano confrontate. Al riguardo, è interessante ricordare che nel 1248 Enrico III° introdusse in Inghilterra il celebre “Trial of the Pyx[3], vale a dire una procedura volta a controllare la conformità delle monete di nuovo conio, che ancora oggi viene praticata. Il procedimento prevede che durante l’anno vengano scelte casualmente delle monete da ogni lotto prodotto e per ciascuna denominazione. Queste monete vengono inserite a gruppi di 50 in sacchetti sigillati ed inseriti in apposite ceste (Pyx). Una volta all’anno si riunisce una giuria, presieduta dal Queen’s Remembrancer della Royal Court of Justice, che ha appunto il compito di testare le monete coniate per verificarne la loro conformità agli standard. Il verdetto della giuria viene consegnato a maggio all’Exchequer (Scacchiere dell’Erario) alla presenza del direttore della zecca inglese.

Infine, si riportano due specifiche tecniche di coniazione che si sono sviluppate nel corso del Medioevo ed in particolare si tratta delle monete scifate (trachy) e dei bratteati nord-europei.

Per quanto riguarda le prime, va innanzitutto precisato che il termine “scifato” identifica una particolare tipologia di moneta emessa nell’impero bizantino la quale è caratterizzata dalla tipica forma a scodella o coppa, da cui anche il nome di “scodellate”. Nei Paesi anglosassoni vengono chiamate “trachy”, termine che deriva dal greco τράχυς (trachys) e che significa irregolare, non liscio. Le monete scifate furono coniate dapprima solo in oro e poi anche in altre leghe (elettro o biglione). Come abbiamo già avuto modo di osservare, non si conosce l’esatta motivazione per cui le monete in parola furono coniate con questa particolare tecnica.

Figura 40 – Scifato in elettro, Isacco II (1185-1195 d.C.)

Alcuni studiosi ritengono che la forma a scodella facilitava l’impilamento delle monete, mentre altri sostengono che tale forma assicurava una maggiore resistenza del tondello alla piegatura, soprattutto nel momento in cui il titolo di oro in esse contenuto fu abbassato rendendo il metallo più malleabile. Ad ogni modo è evidente che la motivazione doveva essere particolarmente importante visti i numerosi inconvenienti che tale tecnica comportava. Infatti, risultava molto difficile coniare le impronte della moneta nella parte più esterna del tondello e per questo motivo la legenda è spesso poco leggibile. Inoltre, il lato convesso della moneta era maggiormente soggetto ad usura.

Oltre all’origine della forma, anche la tecnica utilizzata per coniare queste monete non è ancora chiara. Un’ipotesi è stata recentemente avanzata da Alberto Trivero Rivera[4] ed è quella di seguito descritta. Al riguardo, va innanzitutto premesso che la coniazione di una moneta scifata prevede l’impiego di un conio concavo e di un conio convesso (cfr. Figura 41). Ad oggi, non è ancora certo quale conio (inferiore o superiore) fosse concavo e quale fosse convesso. Secondo Simon Bendall[5] il conio inferiore era convesso, mentre secondo Alberto Trivero Rivera il conio inferiore era concavo. Quest’ultima teoria sembra quella più accreditata. Ad ogni modo, si dovrebbe poter ritenere che il conio concavo avesse un diametro leggermente più ampio di quello convesso e questo al fine di facilitare l’estrazione della moneta coniata.

Anche la tecnica di battitura si discostava da quella di un ordinario processo di coniazione dell’epoca, vale a dire il classico colpo di martello assestato perpendicolarmente al conio inferiore. Infatti, in tal caso, solo le impronte centrali sarebbero state nitide, mentre quelle laterali sarebbero state evanescenti o addirittura assenti.

Figura 41

Come evidenzia Alberto Trivero Rivera, “per ovviare a questo inconveniente, si procedeva con una coniatura ribattendo due volte il conio con due diverse inclinazioni, sì da «basculare» il conio concavo su quello convesso. Con il primo colpo di conio, si otteneva un’incisione nitida su un lato della moneta, che restava scarsamente coniata dall’altro lato, mentre con il secondo colpo di conio, si assicurava un risultato nitido su entrambi i lati”. Peraltro, siccome il secondo colpo non si sovrappone esattamente al primo, la seconda metà della figura non è mai pienamente coincidente con la prima. Talvolta, dopo la seconda battitura, la moneta risultava ancora poco nitida, ed allora si procedeva con una terza battitura ed in questo caso, se nel rovescio vi erano due figure, potevano apparirne anche tre.

Nonostante questa particolare tecnica di coniazione, le monete scifate presentano frequentemente delle impronte irregolari: più nitide nella parte centrale ed evanescenti nelle zone più esterne del tondello, soprattutto nel caso del rovescio. Peraltro, questi difetti si notano meno nelle monete scifate in oro rispetto a quelle in elettro o biglione, in quanto questi ultimi sono materiali molto più rigidi e, quindi, lo scivolamento e la stiratura esterna risultano più accentuate. Inoltre, è probabile che nelle monete d’oro, la coniazione venisse effettuata con la massima cura e attenzione, assicurando che la posizione del conio superiore rimanesse costante in mondo tale da salvaguardare la coincidenza della figura, ottenuta in due fasi distinte.

Figura 42 – Bratteato d’oro medievale

Veniamo ora alla seconda tipologia di monete medioevali che presentano una tecnica di coniazione particolare: i bratteati.

Questo particolare tipo di moneta si diffuse in Nord Europa – specialmente in Germania – intorno alla metà del XII° secolo e fino a tutto il XIV° secolo. Si tratta di una moneta d’argento o d’oro molto sottile, piatta e battuta solo su una singola faccia (dritto). Pertanto, a causa della sottigliezza del metallo, al rovescio presentano la stessa immagine del dritto anche se ovviamente in negativo ed in incuso. L’origine di questa tipologia di moneta è legata alla graduale riduzione del peso del denaro a parità di diametro. A causa di ciò, le monete cominciarono a diventare così sottili che le impronte di una faccia comparivano (in negativo ed in incuso) sull’altra faccia, distorcendosi vicendevolmente. Pertanto, si passò direttamente alla coniazione di una sola faccia.  Si ritiene che la tecnica di coniazione utilizzata prevedesse comunque l’utilizzo di due conî: uno con l’immagine in negativo ed in incuso e l’altro con l’immagine in positivo ed in rilievo. In particolare, il conio con l’immagine in negativo ed in incuso veniva utilizzato per produrre l’altro conio, come se fosse una sorta di punzone. Ciò semplificava molto il lavoro degli incisori che dovevano quindi preparare un solo conio, anziché due.

 

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[1] Angelo Finetti, Numismatica e tecnologia, NIS, 1987, pag. 56.

[2] Angelo Finetti, Numismatica e tecnologia, NIS, 1987, pag. 55.

[3] Il termine “Pyx” si riferisce alla cesta di legno (in greco πυξίς, pyxis) all’interno della quale vengono poste le monete da presentare alla giuria.

[4] Alberto Trivero Rivera, Ipotesi circa la tecnica di coniazione dei Trachy, in Monete Antiche, n. 43/2009, pagg. 25-28.

[5] Simon Bendall, The double striking of late Byzantine concave coins, The Celator, June 1998, pagg. 20 e ss.