1. Epoca antica (600 a.C. – 476)

La nascita della moneta e della coniazione a martello

Prima di entrare nel merito del processo di coniazione a martello, è utile ripercorrere – seppur per sommi capi – la storia e le origini della moneta, in quanto l’invenzione della coniazione a martello va di pari passo con quella della moneta. Gli storici ed i numismatici sembrano concordare nel ritenere che la moneta sia stata “inventata” intorno al 700-600 a.C. in Lidia (un antico Stato corrispondente all’attuale Turchia occidentale).

Invero, i cinesi inventarono un primo prototipo di moneta intorno al 1000 a.C., vale a dire quattro secoli prima dei Lidi. Tuttavia, gli studiosi non riconoscono a tale produzione la qualifica di moneta vera e propria. Infatti, nonostante queste “monete” portino segni che ne indicano il valore e siano state eseguite su richiesta del Governo, erano fuse in stampi, solitamente a forma di piccole conchiglie, coltelli o utensili agricoli, vale a dire oggetti di primaria importanza nel baratto.

Invece, le prime monete dei Lidi possono essere qualificate come tali, essendo rotonde, avendo dei disegni ed essendo battute. Inoltre, secondo quanto si ricava dalle fonti più antiche e dai ritrovamenti databili, solo delle monete coniate in Lidia si hanno prove certe e da queste conviene partire per tratteggiare la storia della coniazione.

Una prima testimonianza di tale monetazione ci viene innanzitutto fornita dallo storico greco Erodoto il quale, nella sua opera “Storie”, rileva che i Lidi, “per quanto ne sappiamo, furono i primi uomini a fare uso di monete d’oro e d’argento coniate e i primi anche ad esercitare il commercio al minuto” (I, 94, 1). Inoltre, vicino ad Efeso nei pressi di un celebre santuario dedicato ad Artemide, a seguito degli scavi condotti dal British Museum nel 1904-1905, furono rinvenute 93 proto-monete che presentavano le superfici lisce e irregolari oppure con immagini e punzoni impressi. Secondo Barclay Vincent Head, all’epoca conservatore del Dipartimento delle monete e delle medaglie del British Museum, alcune di tali proto-monete andavano fatte appunto risalire al re lidio Gige, mentre le altre ai suoi successori[1]. Questo fortunato ritrovamento fornisce un’utile testimonianza dell’inizio della coniazione (640-630 a.C.), un dato che ben si accorda con le altre conoscenze storiche sopra citate.

Le monete della Lidia erano dei piccoli pezzi globulari di elettro[2], che potevano consistere in semplici gocce di metallo prive di qualsiasi contrassegno, in globetti striati/punzonati ovvero in globetti con rappresentazioni figurate ed iscrizioni.

Tuttavia, questa prima forma di monetazione incontrò ben presto un problema: l’elettro può variare di molto nella proporzione di oro e di argento e la gente cominciò ben presto a lamentarsi che le monete contenevano troppo argento e troppo poco oro, con una perdita di fiducia nella nuova invenzione.

Figura 1 – Statere del 650-600 a.C. in elettro Figura 2 – Statere d’oro di re Creso

La soluzione a tale problema fu introdotta dal re dei Lidi Creso (561-546 a.C.)[3], istituendo un sistema monetario bimetallico basato su monete in oro ed in argento (cd. creseidi), la cui unità si chiamava kroíseios, statere d’oro di Creso e venti pezzi d’argento equivalevano ad uno d’oro. Le monete di Creso ebbero grande successo perché rendevano facili gli scambi delle merci ed il commercio, inoltre venivano anche tesaurizzate volentieri dai privati dato che erano piccole, facilmente occultabili, di alto valore e non deperibili.

Questo concetto di monetazione, che usava più metalli ciascuno con il suo valore fisso in rapporto all’altro, sarebbe stata la norma seguita fino ai tempi moderni.

La tecnica di coniazione di queste prime monete era quella “a martello” e si basava su una procedura piuttosto semplice ed intuitiva. L’elettro veniva dapprima fuso per creare delle gocce o globetti di metallo (tondelli) che venivano posti sopra un conio collocato su una piccola incudine; sopra il tondello veniva posto un punzone o, più spesso, un gruppo di due, tre o quattro punzoni serrati assieme; poi il globetto veniva compresso con un colpo di martello sull’immagine in negativo del conio inferiore.

Queste monete venivano battute su di una sola faccia e pur potendo questa essere quella superiore o inferiore del tondello, in pratica era quasi sempre quella inferiore. Siccome non era facile far aderire i globetti alla superficie liscia dei punzoni durante l’operazione, si pensò di introdurre dunque dapprima una superficie in rilievo irregolare (cfr. Figura 1), così il globetto non saltava dal conio inferiore, e poi con il passare del tempo un’immagine (cfr. Figura 2)[4].

Sulle teste dei punzoni superiori non era inizialmente inciso alcun disegno, ma essi lasciavano una traccia profonda  e approssimativa sulla spessa “pallottola” di metallo che fungeva da tondello. Più tardi vennero realizzate delle figure in rilievo nel quadrato incuso e con il passare del tempo si cominciò a lavorare anche il punzone che si trasformò quindi in conio superiore.

Sotto i successori di re Creso, le tecniche di coniazione si perfezionarono, la forma ed il peso delle monete si stabilizzò e iniziò ad essere rappresentato un simbolo preciso che riportava inequivocabilmente all’autorità emittente. Non è ancora chiaro se in quel periodo la coniazione delle monete fosse di monopolio reale o continuasse la produzione di monete da parte di privati, commercianti e banchieri, per far fronte alle richieste del commercio. Ad ogni modo, il successo ottenuto da Creso diffuse l’uso della monetazione nei paesi vicini come la Persia che, dopo aver conquistato il regno della Lidia nel 546 a.C., continuò a far circolare il kroíseios; solo successivamente, il re Dario I introdusse per primo una valuta persiana (il darico) intorno al 515 a.C., conservando l’uso dei due metalli.

Le tecniche di coniazione della Lidia si diffusero anche nelle città-stato della vicina Grecia. Probabilmente la prima polis europea a battere moneta fu Egina, situata sull’isola omonima. La prima moneta di questo popolo fu l’obolo – corrispondente ad 1/6 di dracma e 1/12 di statere – che recava impressa una tartaruga, simbolo della città (cfr. Figura 3). A questa moneta si deve anche il significato di offerta attribuito al termine obolo poiché si usava in quei tempi mettere una di queste monete sotto la lingua dei defunti perché potessero offrirla al nocchiero Caronte in pagamento del trasporto al di là del fiume infernale Acheronte.

Figura 3 – Dracma di Egina Figura 4 – Tetradramma di Atene

Sull’esempio di Egina, molte altre città cominciarono a coniare monete con denominazioni simili alle unità di peso allora in vigore. Le prime monete greche erano marcate con un disegno geometrico o con un simbolo che indicava la città di provenienza. Come già evidenziato, il disegno che le caratterizzava era generalmente impresso su un solo lato (conio di incudine), mentre sull’altro c’era il segno del punzone utilizzato per spingere il metallo.

Con il miglioramento delle tecniche di produzione, si cominciò ad incidere un altro disegno anche sul punzone superiore, ottenendo così monete con l’impronta in rilievo su entrambe le facce. Il tetradramma di Atene (cfr. Figura 4) costituì probabilmente il primo esempio di moneta con effigie su tutte e due le facce: su un lato una civetta e sull’altro la testa della dea Pallade protettrice della città.

Al riguardo, va osservato che nel mondo antico non veniva quasi mai indicato il valore sulla faccia della moneta, come invece divenne comune negli ultimi secoli più vicini a noi, quando alla moneta di valore reale si sostituì il valore fiduciario.

In Grecia, il metallo utilizzato principalmente per le coniazioni era l’argento, che si trova in composti di galena (solfuro di piombo) in varie miniere della Grecia. La più importante si trovava nei pressi della città di Laurium – 60 km a sud-est di Atene – dove migliaia di schiavi estraevano il materiale da piccole gallerie che arrivavano fino a 190 metri di profondità. In seguito la galena veniva fusa in un forno riducente per l’eliminazione delle scorie e passata in un forno con emissioni di aria forzata in grado di separare il piombo dall’argento. Con tale processo, detto “coppellazione”, si otteneva argento puro al quale si aggiungeva una percentuale di rame per migliorare le caratteristiche meccaniche del metallo.

Nel mondo greco erano in uso diversi sistemi ponderali monetari leggermente diversi tra di loro, ma la base era costituita dalla “dracma”, che aveva un peso di circa 4 g. L’abitudine però era di coniare multipli della dracma, in particolare “stateri” o “didrammi” (del peso di circa 7-8 gr.) o “tetradrammi” (del peso di 15-17 gr.). Nell’antica Grecia il diritto di coniazione era riservato alle autorità politiche e ai capi di governo e, di conseguenza, ogni città-stato aveva la propria zecca. Se oggi avessimo la possibilità di entrare in una di quelle zecche, probabilmente rimarremmo sorpresi dal ritmo frenetico e dall’organizzazione delle attività di coniazione.

I greci pian piano cominciarono a colonizzare la Magna Grecia e la Sicilia importando la loro esperienza nel campo della monetazione.

In particolare, le colonie della Magna Grecia coniavano soprattutto stateri: le prime emissioni di alcuni di questi stateri, come quelli di Metaponto, raffiguranti la spiga, o quelli di Crotone con il tripode, erano di una tipologia del tutto particolare. Essi avevano, infatti, da entrambi i lati la stessa raffigurazione: da un lato impressa in rilievo, dall’altra incavata o in incuso. Le due facce sono poste sullo stesso asse. Queste monete, chiamate “incuse”, furono coniate solo da poche città greche dell’Italia meridionale per un periodo di circa 50 anni, a cavallo del 500 a.C., e furono tra le prime monete coniate in Italia. E’ importante evidenziare che questa tecnica di coniazione non va assolutamente confusa con l’errore di coniazione denominato “brockage”. Perché fu adottata questa tecnica è ancora un mistero.

Secondo N. Keith Rutter[5]è improbabile che la ragione fosse la praticità, per esempio la comodità di conservare le monete l’una sull’altra poiché, in effetti, ciò non avveniva. E’ poi impossibile da provare, l’influenza di un individuo, anche se di un personaggio con esperienza nel campo del lavoro del metallo come Pitagora. C’è la possibilità che questa tecnica fosse stata adottata per permettere la conversione di monete importate in monetazione locale, ad esempio le monete potevano venire da Corinto, ma l’esperienza della Sicilia mostra come, per effettuare una tale conversione, vi erano metodi meno elaborati [6]”.

Figura 5 – Statere di Metaponto Figura 6 – Statere di Crotone

Il rovescio incuso veniva prodotto con un conio apposito, inciso in rilievo. I due conî dovevano combaciare perfettamente, in modo che l’asse delle due facce andasse a coincidere. Per ottenere questa precisa giustapposizione i due conî andavano “incavigliati” l’un l’altro con qualche sistema che ne impedisse lo spostamento.

Dopo una prima fase priva di simboli, sia al dritto che al rovescio ne vennero aggiunti diversi quali un granchio, una cavalletta, una cicogna, un delfino, un’arpa ed altri ancora. Ciò probabilmente per valutare i volumi delle emissioni o come contromarche. Si è osservato che alcuni simboli non erano incisi assieme al conio principale, ma venivano impressi successivamente, in una seconda fase di battitura, con conî mobili. Anche la legenda sul rovescio, talvolta in rilievo altre volte incusa, sembra essere stata apposta con punzoni mobili dopo la battitura.

I tondelli venivano prodotti con molta cura: soprattutto nelle prime emissioni sono molto sottili (2-3 mm) e perfettamente circolari. Mancano del tutto irregolarità, globosità o codoli di fusione. Venivano probabilmente ottenuti attraverso un lungo processo di fusione in stampi e poi ritagliati e ribattuti con cura più volte al fine di eliminare qualsiasi difetto o manchevolezza. Grazie alla sottigliezza del tondello talune emissioni, si pensi alla spiga di Metaponto, sono caratterizzate da rilievi molto marcati.

Il bordo presenta spesso delle decorazioni a greca molto elaborate che richiudono come in una cornice i soggetti. Anche in questo caso si pensa che la fascia decorativa esterna sia stata preparata con un conio mobile prima della battitura del tipo principale. Nonostante la fissità del soggetto centrale, la fascia decorativa variava da esemplare a esemplare. Tanta cura e attenzione ad ogni passaggio di produzione della moneta fanno pensare che queste monete fossero opera di orafi esperti, abituati a produrre oggetti elaborati di arte incisoria. Il risultato fu un oggetto raffinato, a metà strada tra la moneta e l’opera d’arte.

In Sicilia la monetazione iniziò lievemente in ritardo e le città greche della Sicilia, al contrario di quelle della Magna Grecia, non coniarono monete “incuse” prediligendo la coniazione di tetradrammi di tipo più tradizionale. In particolare, Siracusa – la più potente città della Sicilia – iniziò l’emissione di un’impressionante serie di monete che costituiscono probabilmente la serie artisticamente più avanzata dell’intera storia numismatica di tutti i tempi: i tetradrammi siracusani più tipici raffiguravano da un lato la testa della ninfa Aretusa, patrona della città, contornata da 4 delfini, dall’altro una quadriga, anche se la varietà della monetazione siracusana è notevole.

Figura 7 – Tetradramma di Siracusa

La più importante innovazione da attribuire alla Magna Grecia e alla Sicilia fu però l’introduzione di un nuovo materiale nell’ambito della monetazione: infatti fu proprio nel sud Italia ed in Sicilia che si incominciò, circa 400 anni prima di Cristo, a coniare “spiccioli” utilizzando il bronzo.

Secondo la tradizione[7], Roma iniziò solo nella seconda metà del V° secolo a.C. ad utilizzare negli scambi commerciali il metallo (aes) fornito di un’impronta (signatum). Infatti, le popolazioni dell’Italia centrale, compresa Roma, inizialmente usavano negli scambi commerciali, come unico metallo, il rame ed il bronzo. In particolare, in una prima fase furono usati pezzi di metallo di forma completamente irregolare, di varie dimensioni, allo stato grezzo (aes rude), ricavati direttamente dalla fusione, senza alcuna lavorazione. Il loro valore era determinato dal peso e non vi era un’uniformità nel peso dei diversi lingotti che andavano da 0,5 kg fino a 3 kg.

Successivamente, a partire dal VII° secolo a.C. si iniziarono ad apporre su questi lingotti metallici dei segni – non si sa bene il motivo, forse per distinguere i lingotti da altri pezzi analoghi o per facilitarne il taglio seguendo l’andamento delle immagini stesse – di cui il più noto è il “ramo secco”.

In una seconda fase (tra il VI° ed il V° secolo a.C.), probabilmente per ridurre le operazioni di pesatura, si cominciarono ad usare dei pezzi metallici di forma più regolare, mettendo un segno che in qualche modo potesse indicarne il valore, il cosiddetto aes signatum. Solo nel III° secolo a.C. – in alcune città dell’Italia centrale – si comincia, invece, ad emettere l’aes grave, delle monete fuse (quindi non coniate) di bronzo, dalla forma circolare.

La nascente potenza romana ben presto prese però contatto con le colonie greche dell’Italia meridionale e prima tra queste Neapolis (Napoli). Allo scopo di favorire il proprio inserimento in questo ricco ambito economico, Roma aveva bisogno di una moneta in grado di competere con le monetazioni della Magna Grecia.

Non c’è quindi da stupirsi se la prima moneta d’argento coniata da Roma segua il sistema ponderale greco e sia un Didramma.

Le prime emissioni di questo tipo sono relative a due successive serie in bronzo che presentano al dritto la testa di Apollo e al rovescio un toro con volto umano (toro androprosopo); la legenda presente nella prima serie riporta il nome “Romano” in caratteri greci (POMAIΩN), mentre nella seconda serie vengono utilizzati caratteri latini per la scritta “ROMAION”, serie battute probabilmente nella zecca di Neapolis.

Figura 8 – Didramma Ercole 269-266 a.C. Figura 9 – Didramma Marte 241-235 a.C.

Per quanto riguarda le monete d’argento, dalla fine del IV° secolo e nei primi decenni del III° secolo a.C. furono coniate tre serie (testa di Marte, la testa di Apollo e la testa di Ercole) con un valore equivalente a quello della Didracma e della Dracma greca, che avevano sul retro la legenda “ROMANO”.

Figura 10 – Denario 46 a.C.

Successivamente, furono coniate delle serie (testa di Marte e testa di Apollo) che riportavano la legenda “ROMA”, caratterizzata da un peso inferiore alle precedenti e presumibilmente coniate a Roma.

Queste emissioni romano-campane sono molto dibattute tra gli studiosi a causa dell’incertezza della loro collocazione cronologica e di conseguenza del loro rapporto con la monetazione romana.

Tuttavia, la moneta che divenne la base dell’economia romana fu coniata in un periodo compreso tra il 264 ed il 202 a.C., ovvero tra le due guerre puniche: il denario d’argento, un termine derivante da deni, ossia per dieci (assi). Il denario resterà alla base della monetazione romana fino alla metà del III secolo d.C., quando verrà sostituito dall’antoniano.

Nella Figura 10 si può apprezzare il rovescio del denario di Carisius che rappresenta una delle poche testimonianze iconografiche degli strumenti di coniazione utilizzati nell’antica Roma.

In particolare, vengono raffigurati i seguenti strumenti: al centro un conio inferiore o conio d’incudine, a destra un martello per la coniazione, a sinistra una tenaglia e infine in alto un conio superiore o conio di martello. Tuttavia, secondo alcuni studiosi, quest’ultimo potrebbe rappresentare un pileo (berretto) laureato di Vulcano.

L’arte della coniazione nell’epoca antica

Dopo questa breve, ma doverosa, introduzione storica, analizziamo un po’ più nel dettaglio le tecniche di coniazione greche e romane. Al riguardo, si osserva che il processo di coniazione dell’epoca, come peraltro nelle epoche successive, può essere suddiviso in tre macro-fasi: (1) la preparazione dei conî, (2) la preparazione dei tondelli e (3) la battitura.

Queste operazioni non venivano necessariamente compiute in uno stesso luogo o edificio visto che talvolta i conî venivano fabbricati centralmente e poi distribuiti alle singole zecche periferiche.

Figura 11 – Affresco con amorini monetieri. Pompei, Casa dei Vettii

All’epoca, l’organizzazione delle zecche era molto complessa e vi lavoravano diverse figure professionali tra cui le principali erano: il tesoriere e sovraintendente (optio et exactor), l’impiegato (officinator), il fonditore (flaturarius), il saggiatore (probator o aequator), il martellatore (malleator), il collaboratore alla battitura (suppostor), l’incisore (scalptor) e il monetiere (signator). Ad esempio, la Zecca di Roma ai tempi della massima potenza dell’impero non aveva nulla da invidiare in quanto ad organizzazione e personale alle zecche di Londra e Parigi in età moderna. Infatti, poteva contare su un direttore e un vicedirettore, su 16 officinatores, su 17 signatores, su 11 suppositores e su 38 malliatores oltre ovviamente ai fonditori, saggiatori, incisori, etc.

I greci ci hanno lasciato veramente poche prove del metodo da loro utilizzato per coniare le monete, invece i romani ne hanno lasciate alcune, come testimoniano il denario Carisius sopra analizzato oppure l’affresco riportato qui di seguito. Infatti, in questa immagine si può ammirare una raffigurazione degli amorini monetieri che si trova presso la Casa dei Vettii a Pompei.

Gli studiosi non sono tutti concordi nel ritenere che l’affresco rappresenti delle scene di coniazione; infatti, secondo alcuni lo stesso rappresenterebbe più propriamente delle scene di oreficeria. L’incertezza deriva anche dal fatto che all’epoca “il metodo di lavorazione era praticamente lo stesso e molte azioni sono comuni alle due tecnologie, ma la destinazione privata dell’affresco sembra contraria ad una lettura ‘monetaria’ che tuttavia persiste nel tempo[8].

 

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[1] Federico Barello, Archeologia della moneta, Carocci Editore, 2006, pag. 45.

[2] L’elettro è una lega naturale d’oro e d’argento, che si trovava in abbondanza nelle acque del Pattolo e di altri fiumi della regione.

[3] Un esemplare di statere in argento del re Creso è conservato presso il Museo della Moneta della Banca d’Italia.

[4] Francesco Panvini Rosati (a cura di), La moneta greca e romana, «L’Erma» di Bretschneider, 2000, pag. 19.

[5] Francesco Panvini Rosati (a cura di), La moneta greca e romana, «L’Erma» di Bretschneider, 2000, pag. 46.

[6] Rutter si riferisce alla pratica della città siciliana di Silinunte di ribattere le monete importate da Corinto. Infatti, le monete importate erano all’epoca una grossa fonte di metallo per le coniazioni in un’isola priva di miniere d’argento proprie.

[7] Plinio il Vecchio in un noto passo della Naturalis Historia (XXXIII, 33, 42-43) scrive “populus Romanus ne argento quidem signato ante Pyrrhum regem devictum usus est […] Servius rex primus signavit aes. Antea rudi usos Romae Timaeus tradit” (traduzione: il popolo romano non ha mai usato monete d’argento prima che il re Pirro fosse sconfitto…il re Servio fu il primo a coniare una moneta di bronzo. Timeo ricorda che precedentemente i romani utilizzavano il bronzo grezzo).

[8]  Lucia Travaini e Alessia Bolis (a cura di), Conî e scene di coniazione, Edizioni Quasar, 2007, pagg. 269-270.